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Pierre HENRY interviewé par le quotidien italien La Stampa
Che fine hanno fatto i tunisini sbarcati a Lampedusa e bene o male (anzi, più male che bene) arrivati in Francia? Be’, sono qui: nei giardinetti della Porte de la Villette, l’estremo lembo Nord di Parigi che sfocia nella Périphérique, la circonvallazione esterna. Non tutti, ovviamente: ora ne restano fra i due e i cinquecento, sfoltiti dalle retate della polizia. All’ultima, mercoledì sera, ne sono stati ingabbiati 59, mentre la Croce rossa distribuiva un pasto caldo. Quelli in regola, con tutti i documenti più qualche euro in tasca, potranno restare, quelli irregolari saranno rispediti nel Paese da dove sono arrivati: quindi, nella stragrande maggioranza, in Italia. Un giro qui suscita la penosa impressione che nella Francia patria dei diritti dell’uomo valgano solo i diritti dell’uomo la cui patria è la Francia.
Per gli altri, c’è un campeggio senza tende, senza acqua e senza cibo se non quello che portano i volontari. Fate conto un normale giardinetto di periferia circondato dal traffico. In mezzo, un gioco per i bambini dove qualcuno ha appeso due patetiche bandierine tunisine. E tutto intorno i capannelli dei disperati. Gli immigrati dormono all’addiaccio, cosa ancora tollerabile fino a ieri l’altro con i 25 gradi di un’estate precoce, un po’ meno ieri con un improvviso autunno precocissimo. Per lavarsi e tutto il resto c’è una fontanella. Insomma, una scena da romanzone dell’Ottocento, fra i Miserabili ed Eugène Sue. Quanti siano i tunisini, nessuno lo sa con precisione: «La polizia ne ha fermati a più riprese circa 150, ma molti sono stati rilasciati - spiega Pierre Henry, direttore di «France terre d’asile» che, insieme al Comune di Parigi, cerca di aiutarli -. Sul numero degli espulsi non c’è certezza. Di sicuro c’è solo che da qualche giorno non ci sono più arrivi massicci».
Le storie sono diverse ma molto simili. Una per tutte: Abder Razek, 24 anni, di Sfax, famiglia di contadini, a casa barman. Come tutti, dice di aver fatto la rivoluzione contro Ben Ali e, sempre come tutti, che a rivoluzione fatta sono spariti i turisti e, di conseguenza, il lavoro. È partito il 23 marzo, pagando lo scafista un milione di dinari, «credo siano circa 500 euro. Sul barcone eravamo una cinquantina. Sono arrivato a Lampedusa e ci sono rimasto dieci giorni». Poi, il giro d’Italia: «Da Lampedusa ci hanno portato in barca a Napoli, in un centro d’accoglienza. Da Napoli, in bus a Voghera, in albergo. Lì mi hanno dato il permesso di soggiorno italiano. Allora sono andato a Ventimiglia, poi a Nizza, poi alla gare de Lyon e adesso ai giardini». Ma i francesi vi facevano passare la frontiera? «A Ventimiglia sì, hanno solo controllato che avessi i documenti, il biglietto del treno e un po’ di soldi. Invece mi hanno portato al commissariato qui a Parigi. Ci sono rimasto una notte, mi hanno fotografato e hanno preso le impronte digitali». E poi? «E poi sono tornato qui. Dove dovevo andare? A Parigi non ho parenti né amici. Cosa vorrei fare? Lavorare. Qualsiasi cosa, l’operaio, il cameriere, il muratore, va bene tutto. Speriamo presto, in tasca mi restano meno di 30 euro...».
Tutti guardavano la televisione, sia quella italiana che quella francese, «però la realtà è diversa», dice uno, e in effetti sì: questo è il reality, ma non è uno show. Sono tutti giovani, tutti uomini, tutti musulmani e tutti preoccupati di essere rimandati indietro. Qualcuno fa lo sbruffone, grida: «Dopo Ben Ali, tocca a Sarkozy!», i più sono rassegnati. Aspettano, ma nemmeno loro sanno bene cosa. «Però se la Tunisia si risollevasse io tornerei a casa», dice Mouhamed Tataoui, 28 anni, diploma da elettrotecnico, ma che lì faceva l’ambulante. Intanto sulla loro sorte litigano il sindaco socialista di Parigi, Bertrand Delanoë, e il ministro sarkozysta dell’Interno, Claude Guéant. Il primo definisce «scioccanti» le retate e chiede per lettera che lo Stato «si assuma le sue responsabilità in materia di ospitalità d’urgenza». Il secondo ribatte a stretto giro di posta che «non tocca allo Stato occuparsene» e che in ogni caso gli irregolari saranno rimandati alla frontiera. Insomma, Guéant, il ministro meno amato dagli italiani, non cambia politica: va bene il permesso di Roma, ma per chi non ha mezzi minimi di sussistenza c’è l’equivalente francese del «fora di ball».
«Però un approccio unicamente poliziesco è assurdo e controproducente critica Henry -. Non vogliamo vendere sogni, chiediamo solo una risposta umana e pragmatica insieme». Potrebbe essere l’ultima parola. Che invece spetta a un tunisino che insegue i giornalisti fra le aiuole stravolte («Il nome? No, meglio di no») e chiede: «Signore, scrivilo per piacere che ringraziamo gli italiani. Con noi sono stati buoni. Molto più buoni dei francesi».
La Stampa, le 29/04/2011